Huffington Post, l’oligopolio che avanza (e sfrutta)

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Lode al neonato digitale. Fra squilli di trombe e fiumi di parole è nato l’Huffington Post versione italiana. La domanda è: siamo sicuri che ci sia da festeggiare? Ovvio, una nuova voce giornalistica è sempre un lieto evento, soprattutto quando è online. Il problema è che questa nascita si porta appresso non poche perplessità. Vediamone alcune.

Un illuminato post su Marketing caffé sostiene una cosa che, a ben vedere, è di notevole importanza: l’Huffington Post finirebbe per imporre un modello editoriale in grado di scardinare un principio base, ovvero quello del compenso del lavoro giornalistico. In buona sostanza, come sottolineato anche, e bene, da Pier Luca Santoro sul suo Giornalaio, la nuova testata del gruppo Espresso sfrutta il lavoro gratuito di 180 blogger, “retribuendoli” con la visibilità. Una sorta di baratto, come scritto da Rudy Bandiera.

Negli Stati Uniti questa prassi ha fruttato all’Huffington post una causa collettiva, da parte dei suoi blogger ma anche 315 milioni di dollari alla fondatrice, grazie alla vendita ad AOL. Insomma un problema c’è. La “visibilità”, garantita dall’essere un blogger dell’Huffington vale la quota parte di quei 315 milioni (oltre ai ricavi pubblicitari) che lo stesso blogger avrebbe meritato per il suo contributo? Qualche dubbio rimane.

In Italia, quindi, il modello è lo stesso. Una redazione leggera e una bella platea di 180 content editor pagati in visibilità. Non che sia un modello nuovo. Fa lo stesso il Fatto quotidiano, Linkiesta, il sole24Ore (anzi, a onor del vero, il Sole un timido tentativo di retribuzione per i blogger lo aveva messo in piedi, salvo poi dimenticarsene), insomma, così fan tutti. Sì, ma non è detto che facciano bene. Come si concilia questo con la battaglia che il sindacato dei giornalisti sta conducendo per l’equo compenso?. Ah, forse il problema è che quelli sono blogger e non giornalisti. Se è così c’è molta miopia in questo atteggiamento. Far passare il concetto che si possa “contribuire” all’informazione in maniera gratuita non fa altro che rafforzare la logica degli editori che pagano con una manciata di centesimi un articolo.

Tralasciamo le logiche sindacali e torniamo un attimo al post di Antonella su Marketing café. L’altro aspetto interessante che solleva è legato al mercato pubblicitario. Con l’iniezione di utenti unici e contatti portati dalla nuova creatura, il Gruppo Espresso, e la sua concessionaria, la Manzoni, consolideranno una leadership incontrastata sul mercato. Si parla di 5milioni di utenti unici giorno medio per l’intera property che per l’Italia è un numero molto ma molto pesante.

Insomma, largo Fochetti detterà legge sul mercato. Così, i centri media che, per pianificare, in genere partono dalla cima della lista dei siti più visitati e scendono sino a esaurimento del budget, finiranno per averla sempre più corta, questa lista. Dopo un Espresso pigliatutto (e qualche altro mainstream) cosa resta a tutto il mondo dell’informazione Web “non allineata” o indipendente?

E’ questa, forse, la lettura corretta del ruolo di “game changer”, evocato da Riccardo Luna per l’Huffington Post italiano. La svolta ulteriore e, forse, decisiva, verso una struttura oligopolistica di Internet, in cui comandano pochi, grandi player. Il resto, mancia.

No, forse non è esattamente una buona notizia la nascita dell’Huffington Post in Italia. Non è una buona notizia l’importazione di un modello basato sullo sfruttamento del lavoro e sulla tendenza alla concentrazione del controllo delle risorse economiche e intellettuali della Rete. Non è una buona notizia che il grimaldello per scardinare il legame fra lavoro giornalistico o di produzione d’informazione (si, anche i blogger “fanno” informazione) e retribuzione lo stia brandendo un gruppo editoriale che si posiziona come progressista (tacendo del Fatto quotidiano). In bocca al lupo a Lucia Annunziata e alla sua redazione, di cuore, ma io non riesco a sorridere.