Piattaforme di noi stessi postiamo, twittiamo, instagrammiamo e – non ultimo- telegrafiamo. Non ci limitiamo a condividere contenuti: produciamo noi stessi traffico e interagiamo con gli altri e direttamente con le aziende. Non esiste, perdonate il gioco di parole, intermediazione mediatica. Il contatto – rieccolo- è immediato e senza filtri. Puntuali, diamo feedback, positivi o negativi a tutto quello che si fa in rete e non solo.
“La voce di un’azienda è una voce di parte” afferma Daniele Chieffi “che però si assume la responsabilità di comunicarsi al pubblico in maniera trasparente.” Si badi bene, non fa informazione e non è tenuta a farlo. E’ un’azienda, non una testata giornalistica. Deve pertanto c
La creazione di questo legame garantisce, senza dubbio, un buon livello di engagement ma avere un like non significa essere letti veramente. Occorre dunque chiarire al lettore dove si trova e che contenuto sta leggendo. Solo così l’interazione lettore-azienda può avere valore, perché diventa occasione di scambio.
Ma se il giornalismo è un falso mestiere, il brand journalism cosa è? La risposta è a metà strada: il primo parla di fatti che riguardano le persone e il secondo di cose che servono alle persone. Ma la vera domanda è: esiste un’intellettualità morale che pone delle regole alla alla strategia di comunicazione? La domanda è provocatoria, la risposta immediata: tutto è concesso, almeno al momento, ma le buone pratiche non dipendono dalla tecnologia che utilizziamo.
“Con i social parola a legioni di imbecilli”? La rete non può essere ridotta a mero spazio virtuale dove chiunque può dare sfogo alle più inutili conversazioni. Esiste un livello sociale formato da
(grafico sul notevole flusso di conversazioni realmente avvenute su #energytelling di @Eniday al #ijf16, relativa agli ultimi 18.000 tweet prima del 10 aprile di Eugenio Maddalena)
video clip “Contact” Daft Punk
Federica De Felici