Quindi no, le parole digitali non esistono, tantomeno le “parole Ostili” digitali, per citare un evento al quale sto per partecipare. Non esiste un odio in Rete o un odio della Rete come fenomeno a sé stante, indipendente e autogenerato dall’ecosistema digitale. Esiste l’odio, il rancore, la violenza, il sessismo, il razzismo, l’ignoranza e il Web, le piattaforme social non sono altro che tecnologie abilitanti all’espressione in forme e modalità diverse e più potenti, di qualcosa che pre-esiste.
Le battaglie contro l’odio in Rete, peggio i paventati provvedimenti di legge sono iniziative al minimo inutili, al massimo strumentali a volontà liberticide e censorie. L’unica cosa di cui non si parla mai in questo fiorire di iniziative contro la violenza digitale è che manca è la consapevolezza. Non si è consapevoli della “forza” dello strumento, dei danni che può provocare, di come dovrebbe essere una convivenza civile digitale. Manca questa consapevolezza a qualsiasi livello. Manca alla persona che trova facile insultare quel personaggio famoso o avversario politico. Manca alla ragazza che si riprende mentre fa l’amore e poi condivide il video “fra pochi amici”, manca all’adolescente che “bullizza” la sua compagna di scuola non particolarmente attraente, manca a chiunque non consideri il Web come parte del proprio contesto sociale.
Per rimediare a questo non bastano certo manifesti per le buone pratiche, raccolte di firme o appelli ma serve insegnare educazione digitale, servono operazioni culturali ampie che contribuiscano a costruire consapevolezza ed educazione allo strumento. Così come s’impara e s’insegna a comportarsi in diverse situazioni sociali, così si deve imparare e insegnare a comportarsi e a gestirsi sui social e sul web.
Discorso complesso, lo ammetto, reso ancor più difficile se si tiene conto di quel dato che parla di quasi il 70% di italiani analfabeti funzionali, ovvero al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell’ascolto di un testo di media difficoltà.
A questo poi dobbiamo aggiungere la mancanza di consapevolezza o la dolosa responsabilità di quanti dovrebbero invece essere i primi a “dare l’esempio”. Parliamo dei componenti di quella che una volta era definita l’élite culturale. Così abbiamo politici e giornalisti che sono i primi ad abbassare il livello dello scambio ed alzare il tono dello scontro sul digitale. Gli insegnanti (non tutti certo) non in grado di comprendere loro per primi il cambiamento e quindi incapaci di preparare i giovani.
Su tutto un sistema dell’informazione che, schiavo del modello di business, digerisce notizie a ciclo continuo, senza verificarne l’autenticità ma col solo scopo di “fare traffico”, nutrendo così quel fenomeno delle fake news di cui tanto si parla ma che certo non è stato inventato dal digitale ma da questo viene amplificato e potenziato anche e soprattutto perché c’è chi, in maniera assolutamente cosciente e organizzata oppure per inconsapevolezza, attiva dinamiche precise di diffusione e amplificazione di notizie false o tendenziose.
Il digitale, i social network, hanno peculiarità tecniche e dinamiche proprie che incidono e influenzano i comportamenti delle persone ma, alla fine della storia, il web altro non è se non lo specchio della nostra società, se volete uno specchio convesso, che ingrandisce e deforma ma pur sempre uno specchio. Non ha alcun senso coprirlo o provare a modificarne la forma, ciò che riflette non cambierà. E’ necessario intervenire a monte, iniziare ad accettare che la patologia sia sociale e non digitale. Il resto sono solo chiacchiere.