A questo punto colgo l’occasione e provo a chiarire alcuni punti, anche per tranquillizzare i colleghi e sostenere l’Odg siciliano nella meritoria scelta di esplorare questo campo.
1 – Brand journalism non vuol dire fare marchette. Il giornalismo di marca altro non è se non l’applicazione delle tecniche giornaliste (si badi bene: tecniche) alla comunicazione di marca. Queste tecniche sono sostanzialmente due: il senso della notizia ovvero la capacità di identificare cosa sia rilevante per un pubblico di riferimento e la capacità di narrazione.
2 – Il brand journalist non scrive sui giornali. No, non è il brand journalist quello che scrive redazionali o pubbliredazionali o peggio articoli non esplicitamente promozionali ma che sono a pagamento. Quelli sono i content editor o più semplicemente giornalisti che fanno marchette.
3 – Il brand journalist realizza contenuti per gli owned media dell’azienda. Lo fa in maniera assolutamente esplicita per il pubblico, senza infingementi e senza nascondersi dietro a finte maschere di giornalismo tradizionale.
4 – Il brand journalism non è giornalismo. Il primo è una tecnica di comunicazione che sfrutta strumenti di tipo giornalistico, il secondo è una missione a servizio del pubblico e di pubblico interesse.
5 – Il brand journalism è etico e deontologicamente corretto. La comunicazione aziendale, soprattutto in questo momento, è vincolata alla verità e alla correttezza delle informazioni che vengono veicolate. Il bravo brand journalist verifica le storie che scrive e veicola informazioni veritiere, facendo sì che il lettore abbia sempre chiaro che a parlare, raccontare, narrare è un’azienda.