Coronavirus: abbiamo sbagliato tutti, con buona pace di chi se la prende solo col Governo

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Abbiamo sbagliato tutti ma non abbiamo sbagliato tutto. Ovviamente mi riferisco alla comunicazione in tempi di coronavirus e ovviamente mi riferisco alla dialettica polemica che si è accesa, tenendo occupati comunicatori e sedicenti tali (anche secondo l’italica logica del “siamo tutti allenatori della Nazionale”), in questo periodo di domesticità forzata dove c’è evidentemente (più) tempo per pensare e scrivere.

Al cuore della polemica il quesito shakespeariano riassumibile in: “Il Governo ha gestito e sta gestendo bene o male la crisi?”. Da qui discendono due linee dialettiche che, citando un detto democristiano, sono rette parallele che s’incontrano. La prima è la reazione alla crisi come capacità reattiva all’emergenza: esisteva o no un piano pandemico, è stato applicato, ciò che doveva arrivare negli ospedali è arrivato, eravamo attrezzati o ci siamo attrezzati per produrre/acquisire ciò che serviva, ecc. (e qui un piovere di spietati giudizi negativi di esperti di crisis management, indignati per il supposto tradimento dell’Accademia, delle buone regole, dei manuali e degli appunti di master e corsi).  L’altra è come sia stata gestita la comunicazione.

Due rette parallele che s‘incontrano, dicevamo. Il problema sta tutto qui (e con questo mi arruolo nella folta schiera dei polemisti da CoronaVirus). Riprendendo l’incipit, non abbiamo sbagliato tutto, anzi. La risposta operativa alla più grave, imprevedibile (almeno negli effetti e in termini di scala) e inaspettata crisi che abbia mai fronteggiato l’Evo moderno, ha più luci che ombre. Certo, non avevamo un piano pandemico aggiornato, certo quel che c’era forse non l’abbiamo neanche applicato. Certo manca quel presidio medico e quella fornitura, l’altra sta arrivando tardi…. Ma è facile giudicare dal divano di casa (e mai come ora questa metafora è reale) mentre si deve fare i conti fra un dilemma che vede in gioco la tenuta economico-produttiva di un Paese e le vite umane, perché di questo si parla.

Ciò che però abbiamo sbagliato tutti è comprendere “dove” questa crisi sia esplosa. Per dove ovviamente non mi riferisco al contesto geografico ma a quello cognitivo, alla realtà nella quale il virus è entrato. Mi riferisco a quell’Infosfera della quale tutti siamo parte, spesso inconsapevolmente prima del virus, ora ben più consci. Questa realtà infosferica ha fatto sì che il virus “infettasse” e cambiasse profondamente le nostre scale di valori, la nostra etica, la nostra morale, la nostra percezione della realtà, dell’Altro, delle Istituzioni, delle aziende, delle singole persone, del futuro e della nostra stessa identità. Ma, per stare agli aspetti di comunicazione, ha sfruttato le nuove dinamiche di costruzione del significato dei messaggi, di cognizione, di costruzione delle interpretazioni e delle narrazioni e di influenza sociale.

Quello che abbiamo sbagliato a è comprendere la forza e le dinamiche dei flussi cognitivi e di comunicazione all’interno di questa nuova realtà, nella quale tutto ciò che si dice e si fa è visibile a tutti e da tutti è valutabile in maniera esplicita e visibile. Ogni scelta che è stata fatta, ogni azione o inazione, ogni messaggio, ogni atteggiamento, finanche ogni scelta d’abbigliamento, ogni tono di voce, il singolo numero, la statistica e chi la diffondeva, i tempi e la frequenza, la piattaforma scelta e il format usato, la presa di posizione, il giudizio, la minimalizzazione o l’allarmismo, l’espressione del viso o l’eloquio, tutto ma proprio tutto è diventato elemento simbolico, interpretato e valutato nell’ambito di una gigantesca narrazione autogenerata.

Tutti reagiamo emozionalmente a ciò che vediamo. Lo scriviamo, lo condividiamo e assistiamo a ciò che gli altri dicono, scrivono e condividono, costruendoci una nostra personale percezione di ciò che sia vero o meno. Il tutto nel primo esempio di Echo chambers collettiva e globale, nel quale pregiudizi, credenze, interpretazioni continuano a iper-confermarsi, in una ipernarrazione che si avvita su sé stessa e che si auto alimenta.

Non esiste più la intermediazione mediatica, che permette di costruire il narrato della realtà “a monte”. Raccontare la crisi su e attraverso i giornali e la televisione, veicolare mediaticamente i messaggi, guidandone la relativa percezione e relegando la discussione, il “buzz” che ne consegue, in ambiti limitati dal punto di vista spazio-temporale: case, luoghi di lavoro, discussioni fra amici, ancor più costretti dall’isolamento forzato. Il digitale, sistema nervoso e circolatorio di questa Infosfera, ha “rotto le gabbie” spazio temporali, costruendo un’unica, gigantesca discussione continua in cui tutti dicono tutto di tutto.

Così le scelte politiche (chiusure o non chiusure, blocchi, deroghe, provvedimenti presi o non presi) diventano meta – messaggi che vengono interpretati in conversazioni social aperte e visibili, assumendo significati magari ben diversi da quelli attesi e voluti. Le posizioni di virologi, medici, infermieri vengono sostenute e scelte come vere o avversate, finendo per polarizzare le audiences. Per non parlare di quel che circola sulle piattaforme di messaggistica, fra testimonianze più o meno dirette di questo o quel parente infermiere o purtroppo vittima del virus e racconti più o meno veritieri che diventano verosimili e contribuiscono alla percezione della realtà, alla sua vera e propria costruzione cognitiva.

Quello che abbiamo sbagliato è non considerare questo e non considerare la forza evocativa di immagini che, in una prima fase, rimbalzavano dalla Cina, realtà lontana e “altra” per definizione, che pure erano perfettamente allineate con il sistema simbolico a cui la narrazione cinematografica e televisiva della catastrofe ci ha abituato. Medici in tuta di contenimento, respiratori, città desertificate un classico disaster movie che poi è improvvisamente esploso anche nella nostra quotidianità, trovandoci ipersensibili. Su quello si è installata una ipercopertura mediatica, che rincorreva i trend dei social (quella che è stata chiamata Infodemia), in una spirale di allarmismo e confusione crescenti.

Il virus ha attaccato la nostra realtà mentre eravamo comunicativamente immunodepressi. Da quel momento in poi ogni azione, messaggio, scelta, a qualsiasi livello, ha assunto un enorme potenziale simbolico, rielaborato, interpretato e vissuto collettivamente, in una ossessiva echo chambers globale.

Cosa abbiamo sbagliato allora, noi comunicatori, giornalisti ma anche politici, decisori, influencers, ciascuno di noi? Non abbiamo avuto la consapevolezza che viviamo in un mondo governato dalla percezione e che ogni cosa che diciamo, facciamo, condividiamo è parte di un processo complesso, potente e veloce di costruzione della realtà cognitiva. Che non esistono più strumenti “a monte” per costruire la percezione della Realtà, dei significati dei messaggi ma che sia necessario pensare a come tutto ciò che diciamo, facciamo, esponiamo visibilmente, possa contribuire a creare la percezione collettiva della realtà, di cosa sia vero o falso, di dove andare, di cosa fare o di cosa non fare.

Un governo della percezione centrale, che non sia solo l’obsoleta regola della “centralizzazione del messaggio”, da veicolare coerentemente su tutte le piattaforme. È necessario pensare a tutto l’apparato simbolico da esporre: dal messaggio alla piattaforma, dall’abbigliamento all’eloquio, dalla tempistica alla forma. Tutto è comunicazione o meglio tutto è simbolo e tutto va governato prevedendone l’interpretazione e la narrazione che ne scaturirà. L’emergenza CoronaVirus è un fenomeno globale e allora globalmente, olisticamente va affrontato perché mai come in questo caso la comunicazione, intesa come capacità di costruire la realtà, attuale e futura, è strategica.