C’è un punto oltre il quale la comunicazione smette di essere racconto e diventa violenza. Il caso Raoul Bova – con la diffusione senza consenso di suoi messaggi vocali privati – segna quel punto con una chiarezza disarmante.
Non siamo davanti a un incidente isolato, ma alla manifestazione plateale di un sistema comunicativo malato, dove i confini tra informazione, intrattenimento e violazione vengono cancellati in nome dell’engagement, dell’audience e della monetizzazione. E quando ciò avviene a partire da un contenuto rubato – e peggio ancora usato per una presunta estorsione – ci troviamo davanti non a una notizia, ma a una violenza simbolica e percettiva amplificata dalla macchina mediatica.
Non è gossip. È una dinamica sistemica
La diffusione di messaggi vocali privati, presi da un contesto intimo e decontestualizzati in uno spazio pubblico, è in sé un atto violento. Ma è il sistema che viene dopo – l’eco amplificata dai social, l’indignazione usata come carburante, la copertura “giornalistica” che rincorre il click – a trasformare quel gesto in una macchina di gogna.
Il meccanismo è noto: la vittima viene spogliata di ogni privacy, ogni diritto alla propria narrazione viene sottratto, e l’esposizione mediatica si trasforma in una nuova forma di punizione sociale. Non importa se c’è stato o meno un reato originario – nel caso di Bova si parla persino di una tentata estorsione. Quel che conta è che la vulnerabilità, se ben confezionata, vale.
La vittimizzazione secondaria: l’opinione pubblica
Questo tipo di esposizione genera una duplice vittimizzazione: la prima è quella diretta, di chi ha subito la diffusione. La seconda è quella indiretta, dell’opinione pubblica, che viene alimentata con contenuti rubati, deformati, costruiti per generare indignazione e ridere su di essa. È la cultura della dissacrazione sistemica, della spettacolarizzazione della fragilità.
Ed è anche una nuova forma di violenza di genere, che colpisce spesso – e in maniera crescente – anche uomini, come confermano i dati. Secondo il report “Permesso negato – Sextortion, quando la sessualità diventa ricatto” (2025), i casi di sextortion sono aumentati del 115% in un solo anno e 1 vittima su 4 è un uomo. Ma il dato più grave è l’uso che i media fanno di queste storie: non per denunciarle, ma per usarle. Per “fare traffico”.
Il cortocircuito della comunicazione contemporanea
Il caso Bova è emblematico anche dal punto di vista semiotico. Perché il contenuto rubato diventa più importante della sua origine, la forma diventa sostanza, la privacy diventa spettacolo, e la vittima, a sua volta, viene letta come colpevole. È il paradosso della comunicazione tossica: sei pubblico, quindi sei colpevole; hai una voce, quindi ti si può zittire; sei famoso, quindi sei di tutti.
Questa dinamica produce un effetto collaterale pericoloso: il silenzio. Chi teme di essere travolto da questo tritacarne digitale evita di esporsi, si autocensura, si sottrae alla conversazione pubblica. E questo mina alla base la possibilità stessa di una comunicazione sana e costruttiva.
Il sistema si alimenta da sé
Non possiamo ignorare il ruolo attivo della macchina mediatica, che ha trasformato l’indignazione in format, la privacy in merce, il discredito in algoritmo. Ogni contenuto viene ottimizzato non per il valore informativo, ma per il valore di clic, di commenti, di “coinvolgimento”.
È una dinamica che conosciamo bene: l’informazione, quando abdica al suo ruolo, diventa percezione manipolata. E chi subisce questo meccanismo non ha strumenti reali di difesa, se non la speranza che l’onda passi. Ma anche quando passa, i danni restano.
Raoul Bova non è un caso, è un sintomo
Il punto non è Raoul Bova. Il punto è ciò che è diventato possibile fare a una persona pubblica (ma potrebbe essere chiunque), usando strumenti mediatici e comunicativi legittimi per fini del tutto illegittimi. Il punto è che una violenza privata si è trasformata in business. E che questo business ha trovato legittimazione nel racconto pubblico, tra articoli, meme, commenti e segmenti TV.
Siamo nel pieno della terza era della comunicazione, quella in cui la percezione ha sostituito il fatto e la viralità ha sostituito la verità. Una fase in cui la responsabilità non è più solo etica, ma sistemica: chi produce, diffonde e rilancia contenuti ha un impatto diretto sulla reputazione e sull’equilibrio psicologico delle persone coinvolte.
Serve un cambio di paradigma
Se non vogliamo che tutto questo diventi la norma, dobbiamo cominciare a porre limiti, definire regole, esercitare responsabilità. Serve un giornalismo che sappia distinguere tra interesse e voyeurismo. Serve una comunicazione che metta al centro la persona, e non il clic. Serve una cultura che riconosca il valore della privacy non come privilegio, ma come diritto.
E serve, soprattutto, che chi si occupa di comunicazione – professionisti, aziende, media – riconosca di essere parte del problema, e quindi parte della soluzione.