Sarebbe bastato chiedere scusa

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Mettere, in un’immagine pubblicitaria, una bottiglia “sopra” due giocatrici, fra le quali la più famosa e premiata del torneo è, di per sé, una scelta inconcepibile. Un evidente errore di composizione dell’immagine e, anche, una mancanza di rispetto per le due malcapitate, finite dietro il bottiglione verde. Davanti agli errori si fa una sola cosa: si chiede scusa e si pone rimedio. Se a questo aggiungiamo che la giocatrice in questione è di colore, che quell’immagine crea un potente equivoco e ambiguità, evocando una scelta voluta (coprire le atlete di colore) e che molte persone – via via sempre di più con un’escalation evidente –  si convincano che sia proprio una scelta voluta e trascorrano una buona parte della domenica a scriverlo sui social, la buona creanza di chiedere scusa diventa una necessità aziendale.

La scelta di Acqua Uliveto è stata invece diversa. Lascia trascorrere la mattina (i primi commenti arrivano piuttosto presto, quasi sicuramente a seguito di un primo post di Massimo Mantellini verso le 9 del mattino) senza interagire con le critiche, anzi, scegliendo di rispondere solo a chi commenta positivamente – una critica così, su un tema così, mossa da un influencer avrebbe dovuto far suonare tutti gli allarmi possibili – , poi il silenzio e circa alle 14, una risposta molto poco empatica, nella quale spiega di non aver assolutamente operato alcuna scelta razzista ma senza riconoscere che, comunque la si metta, quell’immagine – che poi si scoprirà non essere neanche della competizione iridata ma una fotografia d’archivio – con quella bottiglia posizionata con tale imperizia fosse comunque ambigua e quindi sbagliata. Sì, perché quando un messaggio non è chiaro non è mai colpa di chi lo riceve, il pubblico, ma di chi comunica, l’azienda.

Sarebbe bastato dire apertamente che di un errore si trattava, ammettendo che le persone legittimamente potessero “pensar male”, chiedere scusa per la leggerezza, magari pubblicare sui social qualche bella foto delle due giocatrici (diritti di utilizzo permettendo, ovviamente), rifare comunque il visual della campagna, usandone un’altra in cui le due giocatrici fossero ben visibili (per uno sponsor il diritto d’uso dell’immagine dell’intera squadra è sicuramente all’interno del contratto di sponsorship). Nulla di tutto questo accade.

Paola Enogu è un’eroina, un simbolo, una campionessa nel momento di massima esposizione, ha tifosi della prima e (tanti) dell’ultima ora  e in più è di colore e di cosa si parla – con veemenza e forte polarizzazione delle posizioni – in questi tempi se non di razzismo, immigrati, persone di colore, discriminazioni, ecc.? La fiamma si alza, complice la domenica e il tema assai succoso (che sembra fatto apposta per attirare traffico), diventa incendio. I media ci si buttano sopra e praticamente tutti ci scrivono su un bell’articolo che svetta nelle homepage e vola via felice e condiviso sui social. La mattina dopo anche un paio di commenti sulle edizioni cartacee dei quotidiani. La tempesta perfetta, appunto.

Secondo i dati di Pier Luca Santoro, (a questo link tutta l’analisi) ci sono state quasi 14.000 menzioni, da parte di 1.555 autori unici, con un tasso di engagement pari a poco più di 70.000 e un sentiment negativo del 41%. Tanto? Poco? In realtà volumi troppo bassi per poterla definire una vera crisi, anche perché mancano i dati su un effettivo (a questo punto improbabile) impatto sulle vendite o su un reale riposizionamento reputazionale. Una brutta negatività più che una crisi, quindi. Rimane però il fatto che Uliveto sia finita su tutti i media (e protagonista della satira feroce di Crozza a “Che tempo che fa” di lunedì 22 ottobre, accusata apertamente di razzismo), passando, a seconda dei casi, come azienda potenzialmente razzista o semplicemente clamorosamente maldestra.

Senza dimenticare i meme che girano sul web, con la bottiglia che copre tutti i membri del Governo al Gesù della leonardiana “Ultima cena”, passando per la locandina di “Men in black”. Comunque la si metta una campagna di comunicazione bruciata, così come il budget ad essa destinato. Un evidente “effetto boomerang”

La lezione? Più d’una. La prima, la più importante: sempre chiedere scusa, dimostrando di comprendere le ragioni dei propri utenti, condividerne le sensibilità e far sentire così l’azienda vicina ed empatica. L’errore, infatti, non deve essere dimostrato da enti terzi, da evidenze tecniche o essere indiscutibilmente evidente, se la percezione generale è diversa da quella ipotizzata, se la comunicazione non costruisce il senso voluto, il significato cercato nei destinatari, l’errore è sempre del comunicatore e di fronte a un errore si chiede scusa. Arroccarsi su posizioni come: “non era ciò che volevamo dire, non avete capito, noi abbiamo sempre detto o fatto cose diverse” ottengono un fantastico effetto benzina sul fuoco, facendo percepire l’azienda come arrogante e irrispettosa, addirittura sprezzante verso le argomentazioni degli utenti.

Seconda lezione, i processi autorizzativi interni dovrebbero essere snelli ma “blindati”. Un’immagine come quella non doveva avere il “visto si stampi”, anche perché una campagna simile, per la nazionale maschile, aveva tutti i giocatori ben in mostra e la bottiglia nella stessa parte dell’immagine ma in una posizione che richiamava anche il suo essere “parte della squadra” e non certo “sopra la squadra”.

Infine: una sponsorizzazione, in particolare sportiva, è un’attività complessa e costosa. Si pianifica con molto anticipo e si prevedono i contenuti, a seconda dei vari scenari. Come sia possibile che i visual della campagna non fossero pronti da tempo (quantomeno da dopo la semifinale), sia in caso di vittoria che di sconfitta, appare quantomeno strano.

Infine una ultima notazione: se si scorre tutta la comunicazione digital di Acqua Uliveto sulla nazionale femminile, le immagini delle due giocatrici di colore sono assai rare sulla pagina Facebook (curioso visto che si tratta dei due personaggi più in vista del torneo iridato) e molto spesso sono state utilizzate addirittura modelle, bionde. Viceversa sull’account Instagram la Enogu è ben visibile ma solo su condivisione di contenuti della federazione Pallavolo. Questo potrebbe aver a che fare con i diritti di sfruttamento dell’immagine delle giocatrici (la sponsorship potrebbe prevedere la possibilità per gli sponsor di usare solo le giocatrici insieme o in un numero minimo stabilito), ma rimane il fatto che la scarsa esposizione dell’Enogu e della Sylla su FB si nota e ha contribuito a creare quell’ambiguità che è stata ulteriore carburante per la polemica.

Insomma, una vicenda, dal fortissimo – voluto o meno – carattere simbolico che ha sovraesposto negativamente un’azienda. Una vera crisi? Ripeto, non direi, visto anche il crollo verticale dell’interesse sul tema dopo poco più di 36 ore. Più un epic fail, quindi, ma che si sarebbe potuto agevolmente evitare con qualche controllo in più e, appunto, chiedendo semplicemente scusa.