Se la pasta si scuoce è inutile chiedere scusa ai commensali

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dsc00499In un’intervista a Goffredo Buccini sul Corriere della Sera, l’affilato Checco Zalone racconta di essere andato a cena a casa di Nichi Vendola “ma la pasta Barilla non c’era”. L’effetto della maldestra uscita dell’amministratore delegato del più grande gruppo alimentare italiano è tutto qui: la pasta Barilla non è più la pasta “di tutti” ed è ormai nel senso comune – tanto che un comico ci fa battute – che le scatole blu di rigatoni e spaghetti non siano più nelle dispense degli omossessuali.

Che la pasta Barilla sparisca realmente dai carrelli della spesa di una nutrita comunità di italiani lo staremo a vedere ma certo questa è il perfetto case history per chi si occupa di comunicazione e di crisi ed è anche il perfetto esempio di cosa non fare per uscirne dalla crisi, ma andiamo con ordine.

Il presidente di un gruppo, proprietario di un brand storico che da anni parla a tutti gli italiani e incarna all’estero – ma anche in qualche misura in Italia – “la pasta” ovvero il sinonimo di “italiano”, in un momento storico in cui le tematiche gay e l’omofobia sono al centro del dibattito e della scena mediatica (basta pensare al recentissimo provvedimento legislativo), si dà in pasto a una vecchia volpe mordace come Giuseppe Cruciani che in poco più di 12 minuti d’intervista, riesce a fargli dire tutto ciò che non avrebbe mai dovuto dire. Il culmine, come ormai sanno anche le pietre, è che mister Barilla non farebbe mai uno spot con una famiglia omosessuale (tralasciando la quasi medievale descrizione che ha dato del ruolo della donna, come ha sottolineato fra pochi Pier Luca Santoro nel suo blog). In buona sostanza Guido Barilla ha detto che i suoi prodotti sono destinati solo a “persone normali” (anche qui da sottolineare il passaggio del presidente di Barilla, secondo il quale, gli omosessuali facciano quel che vogliono, basta che non diano fastidio agli altri. C’è da tremare ad approfondire il senso del termine “fastidio”), riposizionando il brand e tagliando fuori una bella fetta di clientela. E’ riuscito, in buona sostanza a ideologizzare la sua pasta, rendendola, mi si passi il termine, “di destra”.

Analizzando lo svolgersi della crisi appaiono evidenti alcuni elementi: è esplosa e si è sviluppata in maniera cross-mediale, coinvolgendo ogni tipo di media: radio, giornali, tv, Web. Le dichiarazioni del presidente sono diventate “notizia” critica perché interpretate alla luce del contesto, da media autorevoli e opinion leader. La crisi ha varcato l’oceano, è sbarcata negli Stati Uniti ed è stata sfruttata per fini politici in campagna elettorale. Il Web ne è diventato un potentissimo amplificatore e veicolo particolarmente efficace per la campagna di boicottaggio che immediatamente è stata lanciata.

Ad oggi, quindi, Barilla sta vivendo più che una crisi di comunicazione: una tempesta perfetta. L’azienda cosa decide di fare per contrastare o, come si direbbe tecnicamente, gestire la crisi? Tenta quello che i nostri nonni hanno insegnato essere impossibile: riparare le uova rotte, rimettere il dentifricio nel tubetto o anche mettere una pezza che è peggio del buco.

Parlando di questo tema con una collega de L’Espresso avevo detto “spero che l’AD non decida di chiedere scusa, non solo farebbe una pessima figura ma sarebbe assolutamente non credibile”. Puntualmente prima la società, con un comunicato stampa, poi Guido Barilla stesso, hanno chiesto scusa. Il problema qui è che il buon Giuseppe Cruciani non ha fatto altro che far dire a Guido Barilla quello che pensa realmente. Scusarsi di ciò che si pensa, per quanto possa essere indigesto a qualcuno, non solo rischia di risultare non credibile – soprattutto se si usa la contorta formula “le mie parole … non riflettono correttamente le mie opinioni” – ma anche “interessato”, ovvero mosso solo dalla prospettiva di vedere gli scaffali della grande distribuzione monocolore blu per la pasta che ci rimane sopra. A questo si deve aggiungere la frettolosa campagna pubblicitaria con il claim “la pasta della libertà” che suona davvero stridente.

Cosa fare allora? Visto che le uova si sono rotte conviene preparare la frittata. Accettare il proprio riposizionamento, magari difenderlo anche, con trasparenza e onestà, puntando magari più sull’aspetto “tecnico” delle scelte pubblicitarie (scegliamo messaggi che richiamino la tradizione, evitiamo di prendere posizioni su temi “sensibili”, ecc.) salvo poi predisporre una campagna di comunicazione mirata a riavvicinare, nel tempo, la fetta di clientela che si ritiene di aver allontanato, costruendo la credibilità di questo riavvicinamento. I rebranding chiedono tempo e sono una cosa dannatamente seria.

Se lezioni generali si possono trarre da questo caso sono che per un manager, per un uomo che incarna un’azienda che ha anche un fortissimo valore simbolico e che basa il proprio successo sull’essere accettata da tutti, le interviste e soprattutto i contenitori dove accettare di partecipare vanno scelti con estrema attenzione. La seconda è che le scuse vanno presentate ai propri stakeholders, a fronte di un errore, ma devono essere credibili e percepite sincere. Non ci si scusa per le proprie idee.